Condanna per il padrone che fornisce solo cure palliative ai suoi cani malati
A rendere ancora più drammatica la situazione delle bestie, poi, l’essere state tenute in spazi del tutto inadeguati alla loro stazza

Solo cure palliative per i cani malati: condanna sacrosanta per il padrone. Logico, secondo i giudici (sentenza numero 41418 del 12 novembre 2024 della Cassazione), parlare di maltrattamenti in danno di animali. Inequivocabile il quadro probatorio, che inchioda l’uomo alle proprie responsabilità: egli si è limitato per lungo tempo a somministrare meri palliativi, assolutamente non curativi, per i suoi quattro cani – tutti di razza danese –, affetti da una malattia infettiva, malnutriti e, infine, tenuti in uno spazio angusto. Entrando nei dettagli, si è appurato che i cani si trovavano ristretti in un recinto, di cui solo una esigua parte era coperto da una tettoia, e in stato di malnutrizione, e, inoltre, affetti da malattia, senza però che fossero loro apprestate opportune cure veterinarie. Anzi, la presunta cura prescritta da un non ben identificato veterinario e dall’uomo somministrata alle proprie bestie è risultata essere una terapia meramente palliativa, finalizzata non a debellare la malattia ma solo a calmarne gli effetti dolorosi e ad evitare sofferenze alle bestie. Ebbene, tale atteggiamento appare, già di per sé, compatibile, osservano i giudici, solo con una terapia somministrata ad un malato (sia esso bestia ovvero essere umano) che non abbia effettive possibilità di ricevere una cura che sia volta a determinare la guarigione o, quanto meno, la regressione della infermità ma che già si trovi in uno stadio terminale della patologia da cui è affetto. Difatti, le cure palliative sono giustificate solo in assenza di una ragionevole possibilità di una fausta prognosi (quanto meno sotto il profilo della cronicizzazione di uno stadio patologico e non del suo progressivo aggravamento). Invece, l’uomo ha somministrato ai suoi quattro cani, fin dal momento in cui ha avuto la consapevolezza del loro stato patologico, la sola cura palliativa. A renderne ancora più evidente la responsabilità penale, infine, un ulteriore dato di fatto: egli, in palese contraddizione logica con l’affermazione di volere limitare le sofferenze subite dalle bestie, non solo non ha impedito che loro si trovassero in uno stato, anche severo, di malnutrizione – atteggiamento, questo, evidentemente non compatibile con la volontà di preservare i cani da inutili sofferenze – ma le ha anche custodite in spazi del tutto inadeguati sia alla loro stazza, notoriamente imponente, sia al loro numero, sia, infine, alla patologia. In tale quadro, infine, è priva di logica l’obiezione difensiva secondo cui l’uomo aveva relegato le bestie in un ridotto ambito spaziale per evitare il contagio e la diffusione della loro patologia. Difatti, per stoppare il possibile contagio, la scienza veterinaria pratica ben altre misure (cioè l’abbattimento selettivo), indubbiamente più drastiche, ma altrettanto indubbiamente più efficaci, anche per evitare inutili sofferenze alle bestie infettate. Tirando le somme, la presunta misura di confinamento adottata dall’uomo avrebbe avuto una sua, ipotetica, ragion d’essere solamente ove essa non fosse stata attuata nella forma seguita dall’uomo, ossia con la segregazione delle bestie in un ambito esageratamente ristretto ed inidoneo alla prestazione delle opportune cure, e nel caso in cui fosse comunque emerso, cosa non avvenuta, che l’uomo aveva, nella immediatezza degli spazi ove originariamente si trovavano i quattro cani di razza danese, degli altri animali che, entrando in contatto con loro, avrebbero potuto contrarre la medesima patologia virale.